ABRUZZO 1935 – AFGHANISTAN 1978 Fotografie di Pasquale e Riccardo De Antonis

A cura di Diego Mormorio

Testi di Diego Mormorio e Riccardo De Antonis

Inaugurazione 27 gennaio, ore 18:30
ACTA INTERNATIONAL ROMA

27 gennaio – 17 febbraio 2016

La mostra nasce dai ricordi di Riccardo. Quando, al suo rientro dall’Afganistan, mostra al padre le fotografie prese durante il viaggio, Pasquale, osservandole – così Riccardo rammenta – non potè fare a meno di notare come in quei volti, in quei paesaggi, in quelle atmosfere, gli sembrasse di poter ravvisare ” qualcosa ” del suo Abruzzo, come lo aveva rappresentato tanti anni addietro, nei suoi  ben noti lavori fotografici di indagine etnografica. Da qui il legame tra Abruzzo e Afganistan che dà il titolo alla mostra: paesi e tempi così lontani tra loro ma entrambi con quel “quid” universalmente poetico che li accomuna. La mostra è composta di circa 26 immagini: tutte vintage b/n quelle di Pasquale, quasi tutte inedite e a colori quelle di Riccardo. (ACTA International)
Galleria
ACTA INTERNATIONAL
Direzione: Giovanna Pennacchi
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BREVI CENNI SUL LAVORO DI PASQUALE DE ANTONIS

 

De Antonis nasce a Teramo nel 1908,inizia la sua attività di fotografo nel 1928 a Pescara.

Nel 1935 realizza delle importanti fotografie etnografiche sulle feste di Rapino,Spoltore,Pretoro e S.Gabriele considerate da Annabella Rossi come i primi reportage etnografici insieme a quello di PozziBellini sul Pianto delle Zitelle.Tra il 1930 e 40 ricerca sul ritratto ed il colore producendo immagini dipinte su foto in bianco e nero con una tecnica speciale a base di viraggi,colori a matita uniti con aniline e olio (vedi Photo n.162 dic.1968

Sempre di questi anni è una documentazione storica con foto di architettura e paesaggio su Pescara dell’epoca di D’annunzio anche queste con interventi cromatici.

Interessante per le innovazioni e la ricerca nelle tecniche dell’inquadratura dell’illuminazione è il suo lavoro fino al 1938, specialmente per l’industria,lo sport ed in particolare per le corse di F1 Coppa acerbo.

Partecipa con splendidi ritratti al concorso naz.fotografico del 1933 al I salone della fotografia di Vienna 1934 e XXXI salone di Arte fotografica di Parigi del 1936.

Nel 1939 si trasferisce a Roma in P.di Spagna dove avrà il suo studio fino 1990

Tra il 1947 e 1952 esegue per i testi di Irene Brinn dei servizi di Alta Moda Italiana documentandone la nascita. In questi anni lavora con Luchino Visconti fotografando i suoi spettacoli di teatro e per tutti i maggiori artisti di teatro di quel momento. Continua la sua ricerca sul ritratto fotografando i suoi amici artisti delle arti visive, letterarie e musicale come Afro,Calder,Caporossi,Flaiano,Alvaro,Pratolini,Petrassi.

Tra il 1951 e 1957 realizza delle fotografie astratte che espone alla Gall.dell Obelisco presentano le due mostre Cagli e Sinisgalli.

Dal 1960 inizia il suo lavoro dedicato all’editoria sulle Opere d’arte con grandi servizi come LaCappella Sistina per Rizzoli o i Mosaici Paleocristiani per il Poligrafico dello Stato.

A metà degli anni 70 partecipa per la fotografia alle ricerche di lavoro intercodice del Gruppo Altro con Perilli nell’ambito del teatro sperimentale.

Si spegne a Roma nel 2001


Riccardo De Antonis nasce il 22 dicembre 1952 a Roma, dove vive e lavora. All’inizio degli anni Settanta prende ad occuparsi di fotografia professionale, collaborando con il padre Pasquale nel noto studio di Piazza di Spagna, contemporaneamente, fino al ’76, frequenta l’Istituto di Storia dell’Arte della Sapienza e in particolare le lezioni di Storia del Teatro.

Nel 1977 gli viene affidato l’incarico della documentazione fotografica dei beni demoantropologici del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, a seguito di questa collaborazione, durata sino al 1997, si specia~ lizza nella fotografia di reportage antropologico, continuando l’esperienza del padre in questo settore. Nel 1978 partecipa al Convegno che si tiene a Modena sulla Fotografia come Bene Culturale con un intervento sul tema della Lettura e utilizzo multiplo di un’immagine fotografica dei fondi storìci realizzata in grande formato.

Con il M.N.A.T.P. realizza le campagne fotografiche di molti cataloghi sulle collezioni di oreficeria (L’Ornamento Prezioso, Roma, De Luca/ Leonardo, Mondadori, 1986), ceramica, fischietti, pani e dolci devozionali. Nel 1999 per il libro sulle Feste Giocate, edito da De Luca, realizza nuovi reportage e si confronta con le fotografie di due maestri come Giueppe Primoli per la festa delle bambine di Ariccia e Pasquale De Antonis per il Lupo di Pretoro e le Verginelle di Rapino. Tra il 1987 e il 1990 produce circa 15.000 immagini sulle collezioni di Piemonte e Valle d’Aosta del M.N.A.T.P., finalizzate a una mostra, catalogo e videodisco, esperienza ripetuta con i Musei Trentini per circa 35.000 immagini di storia naturale, reperti preistorici e numismatica. In seguito la sua attività si estende alla riproduzione per volumi di storia dell’arte con importanti case editrici, collezioni private e, dal ’90 al.’92, per i cataloghi della casa d’aste romana Christies.

Tra il 1978 e il 1985 fotografa il teatro contemporaneo tra Roma e Milano e riprende circa 400 spettacoli italiani e stranieri per un totale di oltre 5.000 immagini; parte di questo lavoro viene selezionato ed esposto nel 1984 a Roma, alla Sala Barbo di Palazzo Venezia e nel 2003 diviene oggetto di una nuova mostra Ieri e l’altroieri. Immagini di teatro di Pasquale e Riccardo De Antonis, presso la Libreria Feltrinelli di Genova e il Politeama Genovese, a cura del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.Nel 2004 ancora a Genova nell’ambito delle manifestazioni per Genova04 capitale della cultura europea pubblica il libro “Luce fisicità e spazio del teatro”.

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta realizza alcuni repor­tage all’estero, in particolare in Nepal, Marocco, Turchia, Iran e Afghanistan. In qualità di curatore dell’archivio del padre, ha organizzato numerose mostre e pubblicazioni,tra le più recenti per la città di Teramo, sulle fotografie astratte (testo di Diego Mormorio),per il I Festival della fotografia di Roma e ultimamente nel 2008 organizza la grande mostra sulle fotografie di moda alla Calcografia Nazionale di Roma.Espone i suoi lavori in gallerie come La Moserrato900 di Vincenzo Mazzarella ad esempio la mostra “Portrait”sui ritratti degli artisti romani acquisita totalmente dalla collezione Jacorossi,nel 2009 realizza il catalogo per la mostra Cinquant’anni di civetteria per la ADSI del Molise e espone le sue opere nella grande monografica a Pescara nel Palazzo ell’exAurum. Dal 1996 è docente di fotografia presso l’Istituto “Quasar” di Roma per i corsi di Fotografia digitale, Multimedia ,Habitat, Hipergraphic e Architettura virtuale.


Pasquale e Riccardo De Antonis

“De Antonis ha casa e bottega al primo piano di uno dei palazzetti che fanno ala alla statua dell’Immacolata in Piazza di Spagna. È fotografo di dive, di dee, di sacri mostri. Ci sono poltrone spaiate, l’armamentario, il ciarpame, la refurtiva degli studi – ateliers, dei gabinetti – scannatoi. Ma il mite molosso che si aggira in maglione tra le stanze e corridoi, con dieci o dodici rubinetti sempre aperti – chi più chi meno; il fotografo vive come un feto dentro una placenta di acqua – non ha certo le fisime di Monsieur Verdoux. De Antonis si è creato il suo passatempo dentro la fatica, l’hobby dentro il job”. Così, nel 1957, il poeta Leonardo Sinisgalli, presentando una mostra di fotografie astratte di Pasquale De Antonis alla Galleria L’Obelisco di Irene Brin e Gasparo del Corso.

In più di un’occasione ho sottolineato la perfetta corrispondenza tra il poeta Sinisgalli e il fotografo De Antonis. Tutt’e due – De Antonis e Sinisgalli (che era anche ingegnere) – sapevano bene che una poesia o una fotografia, come una macchina, devono funzionare come un congegno dove nulla è superfluo e tutto è necessario. Per questa via, entrambi nella loro opera hanno dato vita a una bellezza ben congegnata, che rimanda a Baudelaire e a una sua indimenticabile frase: “Tutto ciò che adorna la donna, che serve a illuminare la sua bellezza, fa parte di lei. […] Quale poeta mai, nel ritrarre il piacere prodotto dall’apparizione di una bellezza, oserebbe disgiungere la donna dal suo abito?”

Anche quello che sto per dire l’ho detto e scritto tante volte: Pasquale De Antonis (1908-2001) è stato uno dei dieci grandi più grandi fotografi italiani del Novecento, forse il più grande. È stato tutt’uno con la fotografia: fotografo per inclinazione, per mestiere e per divertimento. Della fotografia conosceva ogni segreto della fotografia. Era tecnicamente un “mostro”. Poteva fare ogni genere di fotografie, così come di ogni genere ne ha fatte.

Egli giunse all’arte fotografica giovanissimo. In una delle tantissime conversazioni che abbiamo avuto mi disse: “Ho cominciato a interessarmi alla fotografia a partire dal 1926, quando cioè ci siamo trasferiti [da Teramo] a Pescara. Comperai Esperimenti di cinematografia e fotografia e un’ottima macchina, la Murer, che si fabbricava a Milano e aveva, già allora, il millesimo di secondo”.

Dopo aver trascorso tre anni a Bologna, nel 1934 De Antonis fece ritorno a Pescara e aprì uno studio al n. 51 di Corso Umberto, che divenne subito il luogo di incontro di una cerchia di amici, cui faceva parte lo scrittore Ennio Flaiano, che disegnò il bozzetto per lo studio dell’amico (vedi qui accanto).

In quegli anni pescaresi De Antonis fu molto legato all’artista Tommaso Cascella, che amava scorrazzare per l’Abruzzo con la sua Lancia scoperta. Fu seguendolo che il nostro pervenne a una vasta conoscenza della regione e tra il 1935 e 1936 poté fotografare alcune delle più belle e significative feste popolari abruzzesi, come “La festa delle Verginelle” di Rapino e quella de “Il lupo di Pretoro”. Immagini che ora hanno un grande valore per chi studia i fenomeni della cultura popolare italiana, e che mostrano come De Antonis avrebbe benissimo potuto seguire la via del reportage.

Grazie a queste fotografie, nel 1936 De Antonis venne ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Fu così che per tre anni fece il pendolare tra Roma e Pescara, vivendo quattro giorni nella capitale e tre in quella che era diventata la sua città. Nel 1939, finalmente, un colpo di fortuna lo portò ad avere uno studio in piazza di Spagna. Arturo Bragaglia che lo aveva occupato fino ad allora l’aveva lasciato pieno di molti materiali che poco avevano a che fare con la migliore produzione che questo fotografo aveva realizzato nel decennio precedente.

Anche questa nuova sede, come la precedente, diventò luogo di incontro di amici artisti e intellettuali. Una cerchia che si estese molto a partire dal 1946, anno in cui De Antonis conobbe la figlia di un generale di corpo d’armata, Maria Vittoria Rossi (1914-1969), alla quale Leo Longanesi aveva trovato lo pseudonimo di Irene Brin, la quale insieme al marito Gasparo Del Corso dirigeva l’appena nata Galleria dell’Obelisco. Donna intelligentissima, colta e di grandissimo fascino, Irene Brin capì subito che Pasquale De Antonis poteva essere il fotografo ideale per fotografare gli abiti di cui lei scriveva su “Bellezza”. Ne nacque una serie di bellissime fotografie e, naturalmente, una grande amicizia, che portò De Antonis all’assidua frequentazione di molti artisti che gravitavano attorno alla Galleria dell’Obelisco, cui il nostro autore dedicò magnifici ritratti. Fra questi Corrado Cagli, che nel 1951 scrisse la presentazione della prima mostra di fotografie astratte di De Antonis, esposizione che si tenne proprio nella galleria di Irene Brin e Gasparo Del Corso.

Cagli chiude la sua nota con un grandissimo elogio: “De Antonis è entrato in questo nostro cantiere dove lentamente si va edificando l’unità della nostra coscienza e c’è entrato umilmente, lavorando alla cofana ‘portando scimmietta’ e chi l’ha visto sul lavoro non si potrà sorprendere di ritrovarsi all’Obelisco di fronte alla poetica di un nuovo, profondo poeta”.

Profondo poeta. È proprio questo l’obiettivo che De Antonis si dà, senza esplicitalo neanche a se stesso, in ogni fotografia. Anche nei diversi spettacoli teatrali che ha magnificamente fotografato per Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Luciano Lucignani, Sergio Tofano, Vittorio Gassman, Luigi Squarzina, Giorgio De Lullo, Franco Zeffirelli.

De Antonis è fotograficamente poeta come pochi anche nelle non molte immagini di paesaggio che ha realizzato. Indimenticabili sono, ad esempio, la veduta della Campagna Romana ripresa intorno al 1950 e quella del Gran Sasso visto dal versante teramano, scattata verso il 1935.

Come tutti i grandi artisti, Pasquale De Antonis non disdegnò nulla di quanto avesse a che fare col suo mestiere. Fu così anche impareggiabile riproduttore di opere d’arte, collaborando con le più prestigiose case editrici. Quasi mitica fu, nel 1965, la sua “campagna” per riprendere, durante molte notti, la Cappella Sistina.

Insomma, tirate le somme: nella fotografia del Novecento italiano, De Antonis è stato il più eclettico degli autori, il più versatile. L’impareggiabile maestro.

Fu, dunque, un privilegio unico per Riccardo De Antonis crescere fotograficamente accanto a Pasquale. Fornito anch’egli di un raro talento naturale per la fotografia Riccardo De Antonis ha potuto, giorno dopo giorno, percorrere molte strade insieme al padre, per poi affinare le proprie intuizioni e seguire i suoi propri richiami, come lascia ben vedere nelle fotografie di questa mostra, in cui con segue con delicatezza e precisione tre direzioni che gli sono sempre state care – i segni dell’arte, il paesaggio e l’aspetto antropologico – mostrandoci un Afghanistan per alcuni versi definitivamente perduto.


                                                                         Un Paese incantato

Avevo saputo che Chatwin nel 1969 intraprese un viaggio in Afganistan ed incuriosito da quelle culture mi decisi di seguirne ad anni di distanza gli itinerari.

Era il 1978 ed ancora e forse per l’ultima volta si potevano visitare quelle terre respirando un’aria di pace.

Partii con gli autobus di linea da Istanbul, allora città medio orientale ancora piena di fascini misteriosi, come il Gran Bazar con i suoi mille mercanti che vivevano anche di soli scambi o i pescatori sotto il Galata bridge che vendevano piccoli pesci fritti e pane dal sapore straordinario ed ancora un’imprevedibile giovane davanti al Topkapi ti aspettava con il suo orso ammaestrato.

Lasciata Erzurum entrai in Iran e raggiunsi Teheran dove si avvisava la voglia di un’imminente occidentalizzazione, che si coniugava con le botticelle di acqua potabile e freschissima, ne gustai il piacere sotto il caldo di un pieno Luglio, questi contenitori disseminati per la città ricordavano, mi dissero, la sete sofferta nel deserto dal Profeta. Ma il grande Iran mi si manifestò con lo splendore della Moschea di Mashad dove un gentilissimo uomo mi avvisò con garbo che l’abbigliamento della mia giovane compagna di viaggio non era adatto a quel luogo così sacro all’Islam.

Intanto erano passati diversi giorni di viaggio ed arrivai al confine Afgano lì dove cominciava la strada in asfalto costruita dagli Americani che mi avrebbe portato ad Herat. Un ciabattino riparò la borsa in pelle della mia Rolleiflex , chiedendomi per il suo lavoro degli spiccioli in moneta locale ed alla mia offerta di pagare con un dollaro, non avendo il resto e forse pensando di fare cosa gradita ad un occidentale, mi offrì in alternativa un pezzo di hashish, declinai gentilmente e ci lasciammo con un sorriso. Questo era l’Afganistan che stavo per visitare, questo fu il primo incontro con gente tranquilla e meravigliosa che mi avrebbero fatto vivere uno dei viaggi più affascinanti. Giunsi ad Herat in cerca dei primi monumenti Moghul e già avvertii qualche tensione della guerra imminente, quando mi fu detto che pochi giorni prima in una di quelle piazze avevano ucciso delle spie sovietiche. Ma la giovane età e l’assoluta imprevedibilità degli eventi, ci spinsero a continuare il nostro viaggio verso Kabul, qui la strada cambiò dall’asfalto americano passammo alle grandi lastre di cemento fabbricate dai Russi, dove in quel momento passeggiavano i cammelli, ma era già pronta per i carri armati. Su questa strada in una pausa accordateci dai nostri autisti, entrai in una delle loro costruzioni di paglia e fango dalle caratteristiche cupolette, qui incontrai un gruppetto di fieri uomini afgani, che ci offersero il loro thè e volentieri posarono per una fotografia, la quale più di altre, mi sembrò. poteva raccontare l’ospitalità di quelle terre. Seguirono centinaia di chilometri tra tempeste di sabbia ed inconvenienti di ogni tipo, compreso la mancanza di acqua potabile, bevevamo in certe zone il succo di meloni gialli per dissetarci, finchè alle porte di Kabul, in un’altra pausa sostammo in una piccolissima bottega, dove un ’uomo seduto nella posizione del loto, vendeva vicino ad un’enorme frigorifero ogni sorta di bibite ghiacciate. I nomi delle strade di Kabul ci facevano sorridere come la mitica Chicken street lì dove la vita sembrava ferma nel tempo e la sera l’unica luce accesa in mezzo alla strada era la bottega di Omar con le sue uova fritte e la birra gelata.

Ripartimmo su un track alla volta di Bamiyan per vedere i Buddha, il viaggio fu interrotto da un guasto del mezzo, si avvicinarono tre donne sul ciglio del fiume vicino e mi chiesero una delle scatolette di tonno che stavamo consumando in’ attesa di un’altro passaggio, per ringraziare si fecero fotografare scoprendo il volto nascosto dal chador. La visita ai Buddha fu piena di fantastiche emozioni, come il poter uscire dalle loro teste passando per meravigliose cappelle affrescate. La tappa successiva fu Mazar-i Shariff su quella strada incontrammo l’antichissimo sito di Balkh, che ci accolse con il fascino delle sue decorazioni in pieno deserto. Girando tra le cupole tutte azzurre come il cielo ed oro della moschea di Mazar-i-Shariff, entrai casualmente in una bottega di libri vecchi per lo più scolastici, ma in mezzo a quelli trovai e comprai un meraviglioso corano antico scritto a mano con lettere nere e rosse, la sorpresa avvenne all’uscita quando nelle zone vicino, venivo fermato da tanti, che mi chiedevano di toccarlo, poi lo baciavano e me lo restituivano, ma improvvisamente qualsiasi cosa ci servisse era praticamente gratuita.

L’ultima destinazione diventò Band i Amir ed i suoi laghi blu sull’altopiano, li raggiunsi su un track di un altro Omar autista afgano a cui piaceva il canto della mia compagna, che per scherzare cantava un vecchio motivo napoletano “Torna a Surriento”e li’ dove dice “vir’u mare quant’è bello” la sola assonanza con il suo nome, senza capire nulla del testo che si cantava, ci fece viaggiare tra risate di gioia sincera.

In quell’atmosfera di festa incontrammo, venire dal nulla e diretti verso un altrettanto nulla, un gruppo di nomadi con cammelli e vestiti dai toni ambra e rossi con fantastici e piccoli gioielli popolari che brillavano in mezzo a tutti quei colori pastello. Una febbre malarica ci convinse a non proseguire per Peshawar in Pakistan che ci avrebbe aperto le porte dell’India, cominciammo invece il viaggio di ritorno per un altro mese di cammino in quelle terre antiche e meravigliose.

Riccardo De Antonis

Roma 09 12 2015

 

 

Presentazione libro “Nunca Más” – 2 dicembre 2015

2 Guido Orsini, Matador, 1995 (courtesy of the Artist) 11Acta International Vi invita mercoledì 2 dicembre alle ore 18:30 alla presentazione del libro Nunca Más di Guido Orsini, con il testo critico di Manuela De Leonardis, realizzato in edizione limitata.

Con l’occasione, inoltre, Vi informiamo che la mostra è prorogata fino al 12 dicembre p.v.

Nunca Más fotografie di Guido Orsini

di Manuela De Leonardis

Alle cinque della sera si consuma il dramma: “solo il toro ha il cuore in alto!” recita Federico García Lorca in una strofa della poesia La morte del torero, lamentando la morte del suo amico, il torero Ignazio Sànchez.

Anche Edouard Manet, tra il 1864 e il 1865, dipinge quadri con il soggetto della corrida, tra cui La morte del torero (oggi alla National Gallery of Art di Washington).

In letteratura ci pensa Ernest Hemingway a centrare l’argomento, che lo accompagnerà dall’inizio degli anni ’20 fino al 1960, con il saggio Morte nel pomeriggio (1932), quando afferma che “La corrida non è uno sport nel senso anglosassone della parola, vale a dire non è una gara o un tentativo di gara tra un toro e un uomo. E’ piuttosto una tragedia; la morte del toro, che è recitata, più o meno bene, dal toro e dall’uomo insieme e in cui c’è pericolo per l’uomo ma morte sicura per l’animale.”

Di solito i toreri hanno un nome nella storia, come nella letteratura e nelle arti visive: Joselito è il torero le cui gesta sono rintracciabili nel primo romanzo di Hemingway, Fiesta e in Morte nel pomeriggio. Fu Gertrude Stein, per prima, a parlare allo scrittore della sua ammirazione per il torero. Anche Picasso, assiduo frequentatore di corride fin dall’età di otto anni (già nei dipinti del 1901 è presente questo soggetto) dipinse Lamento en muerte del torero Joselito, poi utilizzata secondo fonti recenti per la realizzazione della notissima Guernica (1937), opera-manifesto della guerra civile spagnola.

Lo stesso Picasso si sarebbe ispirato alle quaranta incisioni di Goya della serie Tauromachia (1814-16) per illustrare  il trattato che il torero José Delgado, più noto come Pepe Hillo (o Illo), scrisse nel 1796 (il libro di Picasso, invece, fu pubblicata nel 1957). Il suo minotauro, poi, è un erede diretto del toro e della tauromachia : una figura archetipa e selvaggia che incarna il dualismo della natura umana con la sua razionalità e la pulsione bestiale.

Anche nel film Matador (1986), diretto da Pedro Almodóvar, il torero ha un nome – Diego Montes (interpretato da Nacho Martínez), come pure il suo giovane allievo il torero Ángel Jiménez (Antonio Banderas): in questo caso sesso e morte sono declinati alla maniera visionaria del regista spagnolo.

Violenza, sangue, tragedia: elementi che innescano un’esaltazione crescente, che arriva all’apice finale – mortale – così come viene raccontata anche da Fernando Botero nella serie di dipinti che illustrano le diverse fasi della corrida (The Bullfight painting) – incluso La Morte di Luis Chalmetarealizzati all’inizio degli anni Ottanta e presentati per la prima volta alla Marlborough Gallery di New York nel 1985. L’artista colombiano non solo ha sempre nutrito un grande fascino per la tauromachia, ma per due anni – tra i 12 e i 14 anni – frequentò una scuola per toreri, iscritto dallo zio.

Anche i fotografi hanno dedicato parecchi dei loro scatti a questi spettacoli cruenti, spesso però i loro sono sguardi distanti che descrivono l’atmosfera più che la drammaticità del momento: nel 1994-95 Miguel Rio Branco fotografa a colori i toreri nell’arena di Madrid, Peter Marlow ritrae la torera Mari Paz (1997), mentre Martine Franck fotografa il torero francese Sebastian Castella (2003); poi ci sono Steve McCurry, Bruno Barbey, Ferdinando Scianna (che torna più volte in Spagna, anche nel 2004 per entrare nel vivo della festa di San Firmino a Pamplona).

Quanto a Inge Morath, Henri Cartier-Bresson e René Burri, i loro scatti in bianco e nero degli anni Cinquanta entrano nelle arene di Madrid, Siviglia, Pamplona osservando – sempre ad una certa distanza – anche gli spettatori. In particolare, nella nota serie che Cartier-Bresson scattò a Pamplona nel luglio 1952, il fotografo francese sembra addirittura svelare il suo vero interesse: non tanto la scena cruenta, ma la folla: nel pubblico elegante e composto si riconosce anche la coppia di scrittori, i coniugi Kenneth Tynan ed Elaine Dundy, critico teatrale il primo, romanziera la seconda.

Quanto ai tori, invece, non hanno mai un nome.

Anche nelle fotografie di Guido Orsini della serie matador c’è la corrida, ma il senso con cui queste immagini vengono presentate è profondamente diverso. Nunca más, mai più, a cui allude il titolo è già di per sé significativo. Mai più non è, infatti, una semplice locuzione avverbiale. E’ il manifesto della follia umana che mai più dovrà ripetersi.

Nella storia dell’ultimo secolo nunca más viene associato ai desaparecidos dell’Argentina e, quarant’anni prima, ai sopravvissuti del ghetto di Varsavia. Momenti tra i più bui e drammatici del XX secolo.

In questo contesto è alla corrida che si dice basta. Che la tauromachia sia uno spettacolo che risale al II millennio a.C. non è certo un dato sufficiente per giustificare il perpetuarsi delle atrocità legalizzate inflitte ai tori.

Gli animalisti di tutto il mondo non si sono mai dati per vinti esprimendo indignazione e rabbia, ed ora che in Spagna Podemos è salito al potere possono finalmente dire mai più.

Per qualcuno era addirittura considerata patrimonio culturale, questa cruenta tradizione diffusa prevalentemente in Spagna, in alcune zone del sud della Francia e del Portogallo e in molti paesi dell’America Latina.

Guido Orsini fotografa la corrida a Cartagena, in Colombia, nel 1995. Il primo giorno osserva dagli spalti, in alto, l’azione che si svolge nell’arena. Torna il secondo giorno, ma stavolta è concentrato solo sui dettagli.

La distanza crea mistero, là dove la tensione è percepibile come entità a sé stante. Affascinato, ma anche stordito, dal ritmo serrato dei rituali del combattimento egli demanda al mezzo fotografico il ruolo di testimone. Usando la pellicola non è certo del risultato di cui potrà avere visione solo a distanza di tempo, dopo aver sviluppato e stampato i rullini. Tanto più che l’uso del teleobiettivo nell’avvicinarlo al soggetto crea anche una sospensione temporale sottolineata dalla sgranatura dell’immagine che perde definizione.

Nell’arco di un’ora e mezza, due ore, durante le quali tre toreri si alternano per matare due tori ognuno, Orsini realizza una quarantina di scatti.

Colori e movimento sono i due protagonisti di questa sua evocazione in cui la narrativa è costruita sull’immaginazione. Colori brillanti, seducenti – oro, magenta, azzurro, rosso – investiti di significati simbolici.

Cromie che esprimono una femminilità esuberante in contrasto con l’aggressività e la violenza, più propriamente associati al maschile. Sembrano passi di danza in cui i soggetti – il toro e il torero – si avvicinano e si allontanano, arrivando quasi ad emanare il calore di un amplesso. Il mantello rosso si agita segnando il confine tra l’uno e l’altro.

Il fotografo non dà giudizi di sorta, si lascia semplicemente catturare dal vortice di colori, provando emozioni contrastanti. Aspetta trepidante il momento conclusivo. Il sacrificio che fa esultare la folla, erede forse di quella forma di espiazione che secoli addietro aveva portato il patibolo nelle piazze, trasformando la morte in un rito di redenzione collettiva.

 

 

Nunca más – Fotografie di Guido Orsini

Nunca más

 

Fotografie di Guido Orsini

a cura di Manuela De Leonardis

Acta International Roma

6-28 Novembre 2015

 

  

inaugurazione venerdì, 6 novembre 2015 – ore 18,30

Nunca más, mai più. Non è una semplice locuzione avverbiale. E’ il manifesto della follia umana che mai più dovrà ripetersi. Nella storia dell’ultimo secolo nunca más viene associato ai desaparecidos dell’Argentina e, quarant’anni prima, ai sopravvissuti del ghetto di Varsavia. Momenti tra i più bui e drammatici del XX secolo.

Invece, con le fotografie di Guido Orsini della serie matador è alla corrida di tori che si dice basta. Che la tauromachia sia uno spettacolo che risale al II millennio a.C. non è certo un dato sufficiente per giustificare il perpetuarsi delle atrocità legalizzate inflitte ai tori.

Gli animalisti di tutto il mondo non si sono mai dati per vinti, esprimendo indignazione e rabbia, ed ora che in Spagna Podemos è salito al potere possono finalmente dire mai più.

Per qualcuno era addirittura considerata patrimonio culturale, questa cruenta tradizione diffusa prevalentemente in Spagna, in alcune zone del sud della Francia e del Portogallo e in molti paesi dell’America Latina.

L’artista fotografa la corrida a Cartagena, in Colombia, nel 1995. Il primo giorno osserva dagli spalti, in alto, l’azione che si svolge nell’arena. Torna il secondo giorno, ma stavolta è concentrato solo sui dettagli. La distanza crea mistero, là dove la tensione è percepibile come entità a sè stante. Affascinato, ma anche stordito dal ritmo serrato dei rituali del combattimento, egli demanda al mezzo fotografico il ruolo di testimone.

Nell’arco di un’ora e mezza, due ore, durante le quali tre toreri si alternano per matare due tori ognuno, Orsini realizza una quarantina di scatti di cui ventisei vengono esposti per la prima volta alla galleria Acta International.

In Nunca Más fotografie di Guido Orsini colori e movimento sono i due protagonisti di un’evocazione in cui la narrativa è costruita sull’immaginazione. Colori brillanti, seducenti – oro, magenta, azzurro, rosso – investiti di significati simbolici.

Come scrive la curatrice: “Il fotografo non dà giudizi di sorta, si lascia semplicemente catturare dal vortice di colori, provando emozioni contrastanti. Aspetta trepidante il momento conclusivo. Il sacrificio che fa esultare la folla, erede forse di quella forma di espiazione che secoli addietro aveva portato il patibolo nelle piazze, trasformando la morte in un rito di redenzione collettiva.”

In occasione della mostra sarà realizzato un libro d’artista in edizione limitata.

 

Guido Orsini (Roma 1952) comincia negli anni Novanta la sua ricerca in campo fotografico con la sperimentazione e l’uso di tecniche nuove e materiali alternativi: pellicole positive di grande formato, toner e viraggi. Da subito è interessato ad esplorare la relazione tra fotografia, grafica e pittura. I suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private: nel 2014 l’Istituto Nazionale della Grafica ha acquisito due grandi lavori della serie Giardini antichi (1992).

Mostre:

2015 – Passato Presente, a cura di Anna D’Elia e Romina Guidelli, Sale Ruspoli, Cerveteri (Roma) (personale); 2013-2014 – Natura delle cose. Natura dei fatti. Natura della vita. Fotografie di Guido Orsini, a cura di Mary Angela Schroth, Museo Capo di Bove, Roma e Galleria Sala 1 (personale); 2013 – FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma, Linee d’ombra, a cura di Stefano Simoncini, ex GIL, Roma; 1997 – Obiettivi in estasi, galleria Alessandra Bonomo, Roma; 1996 – Reflections, Galerie Ribbentrop, Francoforte (personale); 1995 – Innatura, a cura di Barbara Tosi, galleria Stefania Miscetti, Roma (personale); 1994 – Palme, 65 Thompson –  Leo Castelli/Larry Gagosian, New York (personale).

ACTA INTERNATIONAL

direzione: Giovanna Pennacchi

via Panisperna, 82-83

00184 Roma

martedì – sabato ore 15.30 – 19.30

Tel 06.4742005

info@actainternational.it

www.actainternational.it

 

Sguardi indiretti – Fotografie di Lisistrata Simone

 

a cura di Diego Mormorio

Acta International Roma

4 giugno – 20 giugno 2015

inaugurazione giovedì 4 giugno 2015 – ore 19.00

La Galleria Acta International è lieta di presentare la mostra Sguardi indiretti della fotografa romana Lisistrata Simone.

Quella delle ombre e dei riflessi è una via misteriosa, forse anche, piena di insidie. Alessandra Lisistrata Simone ha scelto di seguirla e, per quello che ci è dato vedere, ci sembra che, evitando i pericoli, abbia saputo cogliere la bellezza. Ci sembra sia giunta ad un chiaro del bosco.

Diego Mormorio

Il mio sguardo grazie a te diventa un occhio magico, riesco così a rivedermi nei riflessi e nelle ombre e insieme a te ritrovo il mondo che mi circonda e lo rivivo impresso in un istante, scatto e lascio un’impronta, un ricordo.

Le immagini fanno parte dell’umanità, siamo circondati da immagini simboli della nostra vita quotidiana, ci esprimiamo con le parole, ma il linguaggio che usiamo ci riporta ad un immagine ad una visione. Certo ognuno di noi porta in sé una propria visione del mondo data dalle nostre esperienze, sensazioni, emozioni. E’ un po’ come ripensare al mito della caverna di Platone dove le ombre, che gli uomini incatenati nella caverna avevano proiettate sulle pareti, riflettevano la vita degli uomini e delle donne al di fuori di questa caverna e quello che era reale per gli uni non lo era per gli altri, ognuno viveva la propria rappresentazione della realtà.

Lisistrata Simone


Alessandra Lisistrata Simone, il suo primo nome è Alessandra, ma lei si sente molto legata al suo secondo nome Lisistrata, ripensando alla commedia di Aristofane. E’ nata a Roma il 27 gennaio 1967. Da sempre interessata all’arte, partendo dagli studi in ambito sociologico, ha ampliato il suo percorso introducendo sempre più un aspetto legato alla conoscenza dell’altro, con la volontà di capire la realtà che la circonda. In tutto questo percorso la passione per la fotografia l’ha avvicinata ancor più verso questo tipo di sensibilizzazione. Passando dagli occhi, toccando il cuore, per arrivare all’azione.

ACTA INTERNATIONAL

direzione: Giovanna Pennacchi

via Panisperna, 82-83

00184 Roma

martedì – sabato ore 17.00 – 20.30

Tel 06.4742005

info@actainternational.it

www.actainternational.it

Indirect Sights – Photographs by Lisistrata Simone

Indirect Sights

Photographs by Lisistrata Simone

curator Diego Mormorio

Acta International Roma

June 4 – 20, 2015

Opening Thursday June 4 – 7,00 pm

Acta International Gallery is pleased to present Indirect Sights, photographs by Lisistrata Simone.

Shadows and reflections are a mysterious path, one, perhaps, full of pitfalls. Alessandra Lisistrata Simone chose to follow it and, for what we can see, it seems that, while avoiding the dangers, she has been able to grasp the beauty. There seems to be a glade in the forest.

Diego Mormorio

Thanks to you, my gaze becomes a magical eye; I’m able to see myself again in the reflections and shadows and with you I find again the world around me and I relive caught in an instant, I snap and leave an impression, a memory.

Images are part of humanity, we are surrounded by images, symbols of our daily lives. We express ourselves through words, but the language we use returns to us as an image and a vision. Of course each of us carries within his own world view formed by experience, feelings, emotions. It is like the myth of Plato’s cave, where shadows cast by men chained in the cave were projected onto the walls reflecting the life of men and women outside of the cave and what was real for some was not for others, each living his own representation of reality.

Lisistrata Simone

Alessandra Lisistrata Simone, her first name is Alessandra, but she is very attached to her second name Lisistrata, thinking back to the comedy of Aristophane. She was born in Rome on 27th January 1967. She has always been interested in art. Beginning from her studies in Sociology, she sees that her path has been widened by her interest in others, by her desire to understand the world, the cultural changes that take place. In all this her love for photography has lead her to become more aware and sensitive, with the wish to use this medium to touch hearts and lead to action.

 

ACTA INTERNATIONAL

Giovanna Pennacchi, director

via Panisperna, 82-83

00184 Roma

Tuesday – Saturday 5.00pm – 8.30pm

Tel 064742005

info@actainternational.it

www.actainternational.it