BREVI CENNI SUL LAVORO DI PASQUALE DE ANTONIS
De Antonis nasce a Teramo nel 1908,inizia la sua attività di fotografo nel 1928 a Pescara.
Nel 1935 realizza delle importanti fotografie etnografiche sulle feste di Rapino,Spoltore,Pretoro e S.Gabriele considerate da Annabella Rossi come i primi reportage etnografici insieme a quello di PozziBellini sul Pianto delle Zitelle.Tra il 1930 e 40 ricerca sul ritratto ed il colore producendo immagini dipinte su foto in bianco e nero con una tecnica speciale a base di viraggi,colori a matita uniti con aniline e olio (vedi Photo n.162 dic.1968
Sempre di questi anni è una documentazione storica con foto di architettura e paesaggio su Pescara dell’epoca di D’annunzio anche queste con interventi cromatici.
Interessante per le innovazioni e la ricerca nelle tecniche dell’inquadratura dell’illuminazione è il suo lavoro fino al 1938, specialmente per l’industria,lo sport ed in particolare per le corse di F1 Coppa acerbo.
Partecipa con splendidi ritratti al concorso naz.fotografico del 1933 al I salone della fotografia di Vienna 1934 e XXXI salone di Arte fotografica di Parigi del 1936.
Nel 1939 si trasferisce a Roma in P.di Spagna dove avrà il suo studio fino 1990
Tra il 1947 e 1952 esegue per i testi di Irene Brinn dei servizi di Alta Moda Italiana documentandone la nascita. In questi anni lavora con Luchino Visconti fotografando i suoi spettacoli di teatro e per tutti i maggiori artisti di teatro di quel momento. Continua la sua ricerca sul ritratto fotografando i suoi amici artisti delle arti visive, letterarie e musicale come Afro,Calder,Caporossi,Flaiano,Alvaro,Pratolini,Petrassi.
Tra il 1951 e 1957 realizza delle fotografie astratte che espone alla Gall.dell Obelisco presentano le due mostre Cagli e Sinisgalli.
Dal 1960 inizia il suo lavoro dedicato all’editoria sulle Opere d’arte con grandi servizi come LaCappella Sistina per Rizzoli o i Mosaici Paleocristiani per il Poligrafico dello Stato.
A metà degli anni 70 partecipa per la fotografia alle ricerche di lavoro intercodice del Gruppo Altro con Perilli nell’ambito del teatro sperimentale.
Si spegne a Roma nel 2001
Riccardo De Antonis nasce il 22 dicembre 1952 a Roma, dove vive e lavora. All’inizio degli anni Settanta prende ad occuparsi di fotografia professionale, collaborando con il padre Pasquale nel noto studio di Piazza di Spagna, contemporaneamente, fino al ’76, frequenta l’Istituto di Storia dell’Arte della Sapienza e in particolare le lezioni di Storia del Teatro.
Nel 1977 gli viene affidato l’incarico della documentazione fotografica dei beni demoantropologici del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, a seguito di questa collaborazione, durata sino al 1997, si specia~ lizza nella fotografia di reportage antropologico, continuando l’esperienza del padre in questo settore. Nel 1978 partecipa al Convegno che si tiene a Modena sulla Fotografia come Bene Culturale con un intervento sul tema della Lettura e utilizzo multiplo di un’immagine fotografica dei fondi storìci realizzata in grande formato.
Con il M.N.A.T.P. realizza le campagne fotografiche di molti cataloghi sulle collezioni di oreficeria (L’Ornamento Prezioso, Roma, De Luca/ Leonardo, Mondadori, 1986), ceramica, fischietti, pani e dolci devozionali. Nel 1999 per il libro sulle Feste Giocate, edito da De Luca, realizza nuovi reportage e si confronta con le fotografie di due maestri come Giueppe Primoli per la festa delle bambine di Ariccia e Pasquale De Antonis per il Lupo di Pretoro e le Verginelle di Rapino. Tra il 1987 e il 1990 produce circa 15.000 immagini sulle collezioni di Piemonte e Valle d’Aosta del M.N.A.T.P., finalizzate a una mostra, catalogo e videodisco, esperienza ripetuta con i Musei Trentini per circa 35.000 immagini di storia naturale, reperti preistorici e numismatica. In seguito la sua attività si estende alla riproduzione per volumi di storia dell’arte con importanti case editrici, collezioni private e, dal ’90 al.’92, per i cataloghi della casa d’aste romana Christies.
Tra il 1978 e il 1985 fotografa il teatro contemporaneo tra Roma e Milano e riprende circa 400 spettacoli italiani e stranieri per un totale di oltre 5.000 immagini; parte di questo lavoro viene selezionato ed esposto nel 1984 a Roma, alla Sala Barbo di Palazzo Venezia e nel 2003 diviene oggetto di una nuova mostra Ieri e l’altroieri. Immagini di teatro di Pasquale e Riccardo De Antonis, presso la Libreria Feltrinelli di Genova e il Politeama Genovese, a cura del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.Nel 2004 ancora a Genova nell’ambito delle manifestazioni per Genova04 capitale della cultura europea pubblica il libro “Luce fisicità e spazio del teatro”.
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta realizza alcuni reportage all’estero, in particolare in Nepal, Marocco, Turchia, Iran e Afghanistan. In qualità di curatore dell’archivio del padre, ha organizzato numerose mostre e pubblicazioni,tra le più recenti per la città di Teramo, sulle fotografie astratte (testo di Diego Mormorio),per il I Festival della fotografia di Roma e ultimamente nel 2008 organizza la grande mostra sulle fotografie di moda alla Calcografia Nazionale di Roma.Espone i suoi lavori in gallerie come La Moserrato900 di Vincenzo Mazzarella ad esempio la mostra “Portrait”sui ritratti degli artisti romani acquisita totalmente dalla collezione Jacorossi,nel 2009 realizza il catalogo per la mostra Cinquant’anni di civetteria per la ADSI del Molise e espone le sue opere nella grande monografica a Pescara nel Palazzo ell’exAurum. Dal 1996 è docente di fotografia presso l’Istituto “Quasar” di Roma per i corsi di Fotografia digitale, Multimedia ,Habitat, Hipergraphic e Architettura virtuale.
Pasquale e Riccardo De Antonis
“De Antonis ha casa e bottega al primo piano di uno dei palazzetti che fanno ala alla statua dell’Immacolata in Piazza di Spagna. È fotografo di dive, di dee, di sacri mostri. Ci sono poltrone spaiate, l’armamentario, il ciarpame, la refurtiva degli studi – ateliers, dei gabinetti – scannatoi. Ma il mite molosso che si aggira in maglione tra le stanze e corridoi, con dieci o dodici rubinetti sempre aperti – chi più chi meno; il fotografo vive come un feto dentro una placenta di acqua – non ha certo le fisime di Monsieur Verdoux. De Antonis si è creato il suo passatempo dentro la fatica, l’hobby dentro il job”. Così, nel 1957, il poeta Leonardo Sinisgalli, presentando una mostra di fotografie astratte di Pasquale De Antonis alla Galleria L’Obelisco di Irene Brin e Gasparo del Corso.
In più di un’occasione ho sottolineato la perfetta corrispondenza tra il poeta Sinisgalli e il fotografo De Antonis. Tutt’e due – De Antonis e Sinisgalli (che era anche ingegnere) – sapevano bene che una poesia o una fotografia, come una macchina, devono funzionare come un congegno dove nulla è superfluo e tutto è necessario. Per questa via, entrambi nella loro opera hanno dato vita a una bellezza ben congegnata, che rimanda a Baudelaire e a una sua indimenticabile frase: “Tutto ciò che adorna la donna, che serve a illuminare la sua bellezza, fa parte di lei. […] Quale poeta mai, nel ritrarre il piacere prodotto dall’apparizione di una bellezza, oserebbe disgiungere la donna dal suo abito?”
Anche quello che sto per dire l’ho detto e scritto tante volte: Pasquale De Antonis (1908-2001) è stato uno dei dieci grandi più grandi fotografi italiani del Novecento, forse il più grande. È stato tutt’uno con la fotografia: fotografo per inclinazione, per mestiere e per divertimento. Della fotografia conosceva ogni segreto della fotografia. Era tecnicamente un “mostro”. Poteva fare ogni genere di fotografie, così come di ogni genere ne ha fatte.
Egli giunse all’arte fotografica giovanissimo. In una delle tantissime conversazioni che abbiamo avuto mi disse: “Ho cominciato a interessarmi alla fotografia a partire dal 1926, quando cioè ci siamo trasferiti [da Teramo] a Pescara. Comperai Esperimenti di cinematografia e fotografia e un’ottima macchina, la Murer, che si fabbricava a Milano e aveva, già allora, il millesimo di secondo”.
Dopo aver trascorso tre anni a Bologna, nel 1934 De Antonis fece ritorno a Pescara e aprì uno studio al n. 51 di Corso Umberto, che divenne subito il luogo di incontro di una cerchia di amici, cui faceva parte lo scrittore Ennio Flaiano, che disegnò il bozzetto per lo studio dell’amico (vedi qui accanto).
In quegli anni pescaresi De Antonis fu molto legato all’artista Tommaso Cascella, che amava scorrazzare per l’Abruzzo con la sua Lancia scoperta. Fu seguendolo che il nostro pervenne a una vasta conoscenza della regione e tra il 1935 e 1936 poté fotografare alcune delle più belle e significative feste popolari abruzzesi, come “La festa delle Verginelle” di Rapino e quella de “Il lupo di Pretoro”. Immagini che ora hanno un grande valore per chi studia i fenomeni della cultura popolare italiana, e che mostrano come De Antonis avrebbe benissimo potuto seguire la via del reportage.
Grazie a queste fotografie, nel 1936 De Antonis venne ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Fu così che per tre anni fece il pendolare tra Roma e Pescara, vivendo quattro giorni nella capitale e tre in quella che era diventata la sua città. Nel 1939, finalmente, un colpo di fortuna lo portò ad avere uno studio in piazza di Spagna. Arturo Bragaglia che lo aveva occupato fino ad allora l’aveva lasciato pieno di molti materiali che poco avevano a che fare con la migliore produzione che questo fotografo aveva realizzato nel decennio precedente.
Anche questa nuova sede, come la precedente, diventò luogo di incontro di amici artisti e intellettuali. Una cerchia che si estese molto a partire dal 1946, anno in cui De Antonis conobbe la figlia di un generale di corpo d’armata, Maria Vittoria Rossi (1914-1969), alla quale Leo Longanesi aveva trovato lo pseudonimo di Irene Brin, la quale insieme al marito Gasparo Del Corso dirigeva l’appena nata Galleria dell’Obelisco. Donna intelligentissima, colta e di grandissimo fascino, Irene Brin capì subito che Pasquale De Antonis poteva essere il fotografo ideale per fotografare gli abiti di cui lei scriveva su “Bellezza”. Ne nacque una serie di bellissime fotografie e, naturalmente, una grande amicizia, che portò De Antonis all’assidua frequentazione di molti artisti che gravitavano attorno alla Galleria dell’Obelisco, cui il nostro autore dedicò magnifici ritratti. Fra questi Corrado Cagli, che nel 1951 scrisse la presentazione della prima mostra di fotografie astratte di De Antonis, esposizione che si tenne proprio nella galleria di Irene Brin e Gasparo Del Corso.
Cagli chiude la sua nota con un grandissimo elogio: “De Antonis è entrato in questo nostro cantiere dove lentamente si va edificando l’unità della nostra coscienza e c’è entrato umilmente, lavorando alla cofana ‘portando scimmietta’ e chi l’ha visto sul lavoro non si potrà sorprendere di ritrovarsi all’Obelisco di fronte alla poetica di un nuovo, profondo poeta”.
Profondo poeta. È proprio questo l’obiettivo che De Antonis si dà, senza esplicitalo neanche a se stesso, in ogni fotografia. Anche nei diversi spettacoli teatrali che ha magnificamente fotografato per Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Luciano Lucignani, Sergio Tofano, Vittorio Gassman, Luigi Squarzina, Giorgio De Lullo, Franco Zeffirelli.
De Antonis è fotograficamente poeta come pochi anche nelle non molte immagini di paesaggio che ha realizzato. Indimenticabili sono, ad esempio, la veduta della Campagna Romana ripresa intorno al 1950 e quella del Gran Sasso visto dal versante teramano, scattata verso il 1935.
Come tutti i grandi artisti, Pasquale De Antonis non disdegnò nulla di quanto avesse a che fare col suo mestiere. Fu così anche impareggiabile riproduttore di opere d’arte, collaborando con le più prestigiose case editrici. Quasi mitica fu, nel 1965, la sua “campagna” per riprendere, durante molte notti, la Cappella Sistina.
Insomma, tirate le somme: nella fotografia del Novecento italiano, De Antonis è stato il più eclettico degli autori, il più versatile. L’impareggiabile maestro.
Fu, dunque, un privilegio unico per Riccardo De Antonis crescere fotograficamente accanto a Pasquale. Fornito anch’egli di un raro talento naturale per la fotografia Riccardo De Antonis ha potuto, giorno dopo giorno, percorrere molte strade insieme al padre, per poi affinare le proprie intuizioni e seguire i suoi propri richiami, come lascia ben vedere nelle fotografie di questa mostra, in cui con segue con delicatezza e precisione tre direzioni che gli sono sempre state care – i segni dell’arte, il paesaggio e l’aspetto antropologico – mostrandoci un Afghanistan per alcuni versi definitivamente perduto.
Un Paese incantato
Avevo saputo che Chatwin nel 1969 intraprese un viaggio in Afganistan ed incuriosito da quelle culture mi decisi di seguirne ad anni di distanza gli itinerari.
Era il 1978 ed ancora e forse per l’ultima volta si potevano visitare quelle terre respirando un’aria di pace.
Partii con gli autobus di linea da Istanbul, allora città medio orientale ancora piena di fascini misteriosi, come il Gran Bazar con i suoi mille mercanti che vivevano anche di soli scambi o i pescatori sotto il Galata bridge che vendevano piccoli pesci fritti e pane dal sapore straordinario ed ancora un’imprevedibile giovane davanti al Topkapi ti aspettava con il suo orso ammaestrato.
Lasciata Erzurum entrai in Iran e raggiunsi Teheran dove si avvisava la voglia di un’imminente occidentalizzazione, che si coniugava con le botticelle di acqua potabile e freschissima, ne gustai il piacere sotto il caldo di un pieno Luglio, questi contenitori disseminati per la città ricordavano, mi dissero, la sete sofferta nel deserto dal Profeta. Ma il grande Iran mi si manifestò con lo splendore della Moschea di Mashad dove un gentilissimo uomo mi avvisò con garbo che l’abbigliamento della mia giovane compagna di viaggio non era adatto a quel luogo così sacro all’Islam.
Intanto erano passati diversi giorni di viaggio ed arrivai al confine Afgano lì dove cominciava la strada in asfalto costruita dagli Americani che mi avrebbe portato ad Herat. Un ciabattino riparò la borsa in pelle della mia Rolleiflex , chiedendomi per il suo lavoro degli spiccioli in moneta locale ed alla mia offerta di pagare con un dollaro, non avendo il resto e forse pensando di fare cosa gradita ad un occidentale, mi offrì in alternativa un pezzo di hashish, declinai gentilmente e ci lasciammo con un sorriso. Questo era l’Afganistan che stavo per visitare, questo fu il primo incontro con gente tranquilla e meravigliosa che mi avrebbero fatto vivere uno dei viaggi più affascinanti. Giunsi ad Herat in cerca dei primi monumenti Moghul e già avvertii qualche tensione della guerra imminente, quando mi fu detto che pochi giorni prima in una di quelle piazze avevano ucciso delle spie sovietiche. Ma la giovane età e l’assoluta imprevedibilità degli eventi, ci spinsero a continuare il nostro viaggio verso Kabul, qui la strada cambiò dall’asfalto americano passammo alle grandi lastre di cemento fabbricate dai Russi, dove in quel momento passeggiavano i cammelli, ma era già pronta per i carri armati. Su questa strada in una pausa accordateci dai nostri autisti, entrai in una delle loro costruzioni di paglia e fango dalle caratteristiche cupolette, qui incontrai un gruppetto di fieri uomini afgani, che ci offersero il loro thè e volentieri posarono per una fotografia, la quale più di altre, mi sembrò. poteva raccontare l’ospitalità di quelle terre. Seguirono centinaia di chilometri tra tempeste di sabbia ed inconvenienti di ogni tipo, compreso la mancanza di acqua potabile, bevevamo in certe zone il succo di meloni gialli per dissetarci, finchè alle porte di Kabul, in un’altra pausa sostammo in una piccolissima bottega, dove un ’uomo seduto nella posizione del loto, vendeva vicino ad un’enorme frigorifero ogni sorta di bibite ghiacciate. I nomi delle strade di Kabul ci facevano sorridere come la mitica Chicken street lì dove la vita sembrava ferma nel tempo e la sera l’unica luce accesa in mezzo alla strada era la bottega di Omar con le sue uova fritte e la birra gelata.
Ripartimmo su un track alla volta di Bamiyan per vedere i Buddha, il viaggio fu interrotto da un guasto del mezzo, si avvicinarono tre donne sul ciglio del fiume vicino e mi chiesero una delle scatolette di tonno che stavamo consumando in’ attesa di un’altro passaggio, per ringraziare si fecero fotografare scoprendo il volto nascosto dal chador. La visita ai Buddha fu piena di fantastiche emozioni, come il poter uscire dalle loro teste passando per meravigliose cappelle affrescate. La tappa successiva fu Mazar-i Shariff su quella strada incontrammo l’antichissimo sito di Balkh, che ci accolse con il fascino delle sue decorazioni in pieno deserto. Girando tra le cupole tutte azzurre come il cielo ed oro della moschea di Mazar-i-Shariff, entrai casualmente in una bottega di libri vecchi per lo più scolastici, ma in mezzo a quelli trovai e comprai un meraviglioso corano antico scritto a mano con lettere nere e rosse, la sorpresa avvenne all’uscita quando nelle zone vicino, venivo fermato da tanti, che mi chiedevano di toccarlo, poi lo baciavano e me lo restituivano, ma improvvisamente qualsiasi cosa ci servisse era praticamente gratuita.
L’ultima destinazione diventò Band i Amir ed i suoi laghi blu sull’altopiano, li raggiunsi su un track di un altro Omar autista afgano a cui piaceva il canto della mia compagna, che per scherzare cantava un vecchio motivo napoletano “Torna a Surriento”e li’ dove dice “vir’u mare quant’è bello” la sola assonanza con il suo nome, senza capire nulla del testo che si cantava, ci fece viaggiare tra risate di gioia sincera.
In quell’atmosfera di festa incontrammo, venire dal nulla e diretti verso un altrettanto nulla, un gruppo di nomadi con cammelli e vestiti dai toni ambra e rossi con fantastici e piccoli gioielli popolari che brillavano in mezzo a tutti quei colori pastello. Una febbre malarica ci convinse a non proseguire per Peshawar in Pakistan che ci avrebbe aperto le porte dell’India, cominciammo invece il viaggio di ritorno per un altro mese di cammino in quelle terre antiche e meravigliose.
Riccardo De Antonis
Roma 09 12 2015