Fragilità – Fotografie di Barbara Luisi

Giovanna Pennacchi è lieta di presentare la mostra

Fragilità

Fotografie di Barbara Luisi

a cura di Manuela De Leonardis

21 novembre – 14 dicembre 2016

inaugurazione lunedì 21 novembre – ore 18.30

Corpi che s’intrecciano dando forma a passi di una danza virtuale, dialoghi serrati di sguardi: la serie Fragilità (2013-2015) definisce il senso d’intimità, lasciando affiorare tracce di un erotismo non affatto provocatorio. Spesso sono le mani e i piedi le parti del corpo catalizzanti. La confidenza, di cui Barbara Luisi viene resa partecipe, nasce da gesti istintivi e improvvisi dei modelli (non professionisti), piuttosto che da esigenze del set fotografico, dalle loro parole sussurrate e dal modo in cui si muovono nell’oscurità del suo studio, “ognuno esprimendo i propri sentimenti dell’essere chiusi in sé.” Una libertà incondizionata – percepibile – che entra, quindi, nella costruzione dell’immagine. Fragilità intesa più che come condizione psicologica di qualcosa tendenzialmente labile, nelle sue potenzialità di dono, del segreto da proteggere.

Fonte inesauribile d’ispirazione, accanto alla natura, l’arte in tutte le sue declinazioni attraverso i secoli. Soprattutto quella che si respira a Roma, dove Luisi si reca a 18 anni quando inizia a fotografare. La Pietà di Michelangelo – quella naturalezza composta delle figure e l’aspirazione alla perfezione delle forme – è un modello che tornerà nel tempo, insieme alla teatralità nell’uso della luce tipicamente caravaggesca e alla sensualità palpitante e ambigua che trapela dalle sculture di Bernini, tanto più quando il soggetto è l’Estasi di Santa Teresa.

L’eredità della classicità – assorbita e rielaborata nel tempo – è sintetizzata da un’opera emblematica come il Torso di Discobolo (restaurato come guerriero ferito) dei Musei Capitolini, copia marmorea del I sec d.C. da Mirone, restaurata e re-interpretata tra il 1658 e il 1733 dallo scultore francese Pierre-Etienne Monnot, in cui la tensione dello slancio è già catturata dal momento successivo.

Il linguaggio del bianco e nero, attraverso l’utilizzo della pellicola, stampando prevalentemente alla gelatina ai sali d’argento su carta baritata o a pigmenti – talvolta anche al platino – è una necessità che porta la fotografa all’interpretazione del reale attraverso una riduzione degli elementi. Proprio come avviene nella musica, dove innumerevoli possibilità si esprimono attraverso la combinazione di solo sette note.

(Manuela De Leonardis)

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Barbara Luisi è nata a Monaco di Baviera, vive e lavora tra New York, Zurigo e Camogli (GE). Violinista dall’età di nove anni, dopo il diploma alla Munich Arts and Music Highschool ha proseguito gli studi presso la Hochschule für Musik und Theater di Monaco. Ha suonato in importanti orchestre europee quali la Munich Philharmonic, l’Orchestre du Capitole de Toulouse e la Bayerische Staatsoper ed è stata Primo Violino nel Pocci String Quartet. Affascinata dalla camera oscura, a 17 anni ha iniziato ad interessarsi alla sperimentazione fotografica. La ritrattistica, spesso associata al teatro e alla musica, è tra i generi che predilige, insieme a nudo, still life e notturni. Ha studiato e lavorato con i fotografi Eikoh Hosoe, Art Streiber, Michael Grecco e Jock Sturges. Tra le mostre personali recenti: 2016 – Vita Aeterna, Isaia, New York; 2015 – Florence after Nightfall, Teatro dell’Opera, Firenze; Dreamland, Glorietta gallery, Beirut; Night on Earth, NYU University, New York; 2014 – &Elig;UVRES RÉCENTES, Maison Européenne de la Photographie, Parigi; Night and Nude, galleria Emmeotto, Roma; Dreamland, Auditorium Fondazione Paolo Grassi, Martina Franca (TA).

E’ autrice dei libri fotografici: Nude Nature (Böhlau, 2008), Glühende Nacht (Böhlau, 2008), Pearls, Tears of the Sea (Böhlau, 2011) e Dreamland (Contrasto, 2014)

www.barbaraluisi.com

Informazioni:

Fragilità. Fotografie di Barbara Luisi

21 novembre – 14 dicembre 2016

inaugurazione lunedì 21 novembre – ore 18,30

a cura di Manuela De Leonardis

ACTA INTERNATIONAL

direzione: Giovanna Pennacchi

via Panisperna, 82-83 – 00184 Roma

dal martedì al sabato ore 15.30 – 19.30

Tel 064742005

info@actainternational.it

www.actainternational.it

A STRATI – fotografie di Simon d’Exéa

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Giovanna Pennacchi è lieta di presentare la mostra

A STRATI

fotografie di Simon d’Exéa

a cura di Diego Mormorio

20 aprile – 20 maggio 2016

Inaugurazione mercoledì 20 aprile 2016

Ore 18.30

Inaugura mercoledì 20 aprile 2016 alle ore 18.30 presso la galleria “Acta International” di Giovanna Pennacchi, la mostra A Strati, personale di Simon d’Exéa curata da Diego Mormorio.

Le dodici fotografie in bianco e nero, delle dimensioni di 40x30cm, sono ottenute attraverso sovrapposizioni, da cui il titolo, di fotografie di architettura: visioni simultanee, come il quadro dipinto nel 1911 da Umberto Boccioni, per il quale la simultaneità era “una necessità assoluta nell’opera d’arte“. Simon d’Exéa, come spiega il curatore della mostra Diego Mormorio “è su questa strada – l’unica poeticamente percorribile – , ma lo è con un suo particolare approccio. Egli sembra, infatti , impegnato a restare nel meraviglioso mare della simultaneità tenendo aperto un occhio sull’impianto rinascimentale “.

Le immagini in mostra ritraggono monumenti e luoghi di Roma e Parigi, città natale del giovane fotografo, classe 1983. Le opere sono sovrapposizioni di più foto dello stesso luogo, riprese da angolazioni diverse. Tra i monumenti ritratti dal fotografo la Chiesa di Sant’Agostino a Torre Maura, la Casa delle Armi di Moretti,  la Chiesa di Santa Maria alla Navicella, i Fori Imperiali.

Il lavoro di composizione è basato su una ricerca puramente estetica, un gioco sulle immagini del luogo prescelto che rimangono impresse nella memoria.

Le immagini della mostra sono tutte inedite, pensate e create appositamente per la mostra.

Simon d’Exéa ha frequentato il Master in Fotografia presso la Scuola Romana di Fotografia (2002-2005) lavorando contestualmente come assistente di sala posa. Dal 2005 al 2010 è assistente del fotografo Claudio Abate e dal 2010 dell’artista Ileana Florescu. Ha collaborato con varie testate tra cui la rivista italiana Arte, quella giapponese Spur Magazine e quella francese Elle. Specializzato nella fotografia d’Arte Contemporanea, collabora con numerosi artisti tra cui Piero Pizzi Cannella, Oliviero Rainaldi e Giovanni Albanese e con musei e gallerie tra cui il MACRO e L’attico di Fabio Sargentini.

 

 

Ufficio Stampa:

Allegra Seganti – allegraseganti@yahoo.it – 335/5362856

Flaminia Casucci – flaminiacasucci@gmail.com – 339/4953676

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ACTA INTERNATIONAL

Direzione: Giovanna Pennacchi

via Panisperna, 82/83

00184 Roma

tel +39 06.47742005

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Testo critico di D. Mormorio

Tutto è stato detto. Si tratta di dirlo diversamente. E Simon d’Exéa quello che dice in questa mostra lo dice bene e facilmente sarebbe capito dai nostri padri preistorici che quindicimila anni fa disegnarono nella grotta dei Trois Frères, nella zona di Montesquieu-Avantès, in Francia. Quando, poco più di un secolo fa, questi disegni furono scoperti lasciarono sbalorditi. Ci si trovò di fronte a degli stupefacenti grovigli di immagini. Osservandoli, balzò immediatamente all’occhio l’incompiutezza delle figure e la loro sovrapposizione, apparentemente del tutto disordinata. Ci si trovò di fronte a un’idea dello spazio che all’inizio del Novecento appariva non-realistica, perché si allontanava dalla visione prospettica, che pur da qualche tempo aveva cominciato già a dissolversi.

Un anno dopo quel ritrovamento, nel 1911 Umberto Boccioni (1882-1916), del tutto ignaro di quei disegni preistorici, dipinse Visioni simultanee. Successivamente scrisse: “Proclamammo che la simultaneità era una necessità assoluta nell’opera d’arte moderna e la ‘meta inebriante’ dell’arte futurista. Il primo quadro che apparve con affermazione di simultaneità fu il mio ed aveva il titolo seguente: Visioni simultanee”.

Visioni simultanee, così com’erano quelle dei Trois Frères. E come sono, da qualche anno, molte prove fotografiche. Simon d’Exéa è su questa strada – l’unica poeticamente percorribile –, ma lo è con un suo particolare approccio. Egli sembra, infatti, impegnato a voler restare nel meraviglioso mare della simultaneità, tenendo aperto un occhio sull’impianto rinascimentale.

Diego Mormorio

 

FILEMONE E BAUCI Metamorfosi – Fotografie di Ottavio Celestino

Giovanna Pennacchi è lieta di presentare la mostra:

 FILEMONE E BAUCI

Metamorfosi

 Fotografie di Ottavio Celestino

A cura di Diego Mormorio

 9 marzo – 4 aprile 2016

 Inaugurazione  mercoledì 9 marzo , ore 18:30

 Acta International – Roma

Da tempo Ottavio Celestino ha posto al centro della sua ricerca il legame tra l’uomo e la natura, considerandolo un aspetto imprescindibile dell’ esistenza umana.

Con questa mostra Celestino da’ vita ad una nuova serie fotografica  che ha come soggetto i misteri del

 bosco e che prende come ispirazione il mito di Filemone e Bauci, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio.

 ” La bellezza del soggetto non è tout-court la bellezza della fotografia ma a volte – anzi spessissimo – si scambia la prima con la seconda. Nessuno degli elementi che vediamo in queste fotografie di Ottavio Celestino è di per se’ bello. Cionondimeno siamo di fronte ad immagini bellissime . Mettendo insieme le capacità compositive con una felicissima scelta della luce, il fotografo ha trasformato  quello che potrebbe apparire un modesto e del tutto ordinario bosco nel  Bosco del Mondo , dei modesti alberi in forme parlanti ….”

(Diego Mormorio , La sacralità del Bosco)

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Direzione: Giovanna Pennacchi

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Ottavio Celestino inizia la sua attività professionale nel 1990 con pubblicazioni e collaborazioni per diverse testate giornalistiche. Negli stessi anni inaugura un’ intensa attività di collaborazione con le principali Agenzie di pubblicià italiane ed estere tra Roma-Milano-Torino .

Membro dell’Art Director Club Italia, colleziona negli anni numerosi premi e riconoscimenti nel mondo dell’Advertising.

Molto intensa la sua presenza nell’universo espositivo realizzando molteplici progetti fine-art presso Musei e Gallerie Italiane ed Estere.Tra i più rappresentativi si possono annoverare: Museo d’arte Contemporanea L. Pecci, Museo Bilotti di Rende, Palazzo delle Esposizione di Roma, Istituto italiano di Cultura Strasburgo, Fondazione Pastificio Cerere di Roma dove dal 1999 è attivo il proprio studio-atelier .

Espone altresì in Gallerie quali Ex Elettrofonica Roma, Mia Art Fair Milano,Officina Giovani Prato, Ex Magazzini Generali Roma, L&C Tirelli Losanna, Vhs Photogaleri Stoccarda.

Molteplici le sue pubblicazioni editoriali : La differenza Invisibile Ed Giuntina; Species Ed Forte; 11 Storie Carlo Cambi Editore; Men Art Work Ed Nutrimenti; Nature Meccaniche Carlo Cambi Editore.

Negli ultimi dieci anni riceve commissioni per Progetti e pubblicazioni di prestigio da: CRI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Invitalia, Enel, Tim.

Negli anni 2012/13 ,2015/16 l’influente magazine internazionale di Advertising Lùzers’s Archive lo inserisce tra i 200 Best Photographers World Wide.


La sacralità del bosco

La bellezza del soggetto non è tout-court la bellezza della fotografia, ma molte volte – anzi, spessissimo – si scambia la prima con la seconda. Un bel paesaggio non è, ad esempio, necessariamente una bella fotografia. Se la bellezza del soggetto fosse la bellezza della fotografia, per gli amanti delle rose ogni immagine di questo fiore sarebbe una bellissima composizione. Ma, in realtà, così come in pittura e in altre arti, la bellezza della fotografia risponde, a prescindere dal soggetto, a questioni tecniche quanto estetiche.

Per quanto non spiacevole, nessuno degli elementi che vediamo in queste fotografie di Ottavio Celestino è di per sé bello. Cionondimeno siamo di fronte a immagini bellissime.

Mettendo insieme le capacità compositive con una felicissima scelta della luce, il fotografo ha trasformato quello che potrebbe apparire un modesto e del tutto ordinario bosco nel Bosco del mondo, dei modesti alberi in forme parlanti.

A chi ama la letteratura latina e la mitologia greco-romana, queste immagini riportano alla mente – e davanti agli occhi – un racconto che viene dalle Metamorfosi di Ovidio, che Ottavio Celestino ama particolarmente. Si tratta della storia di Filemone e Bauci, una coppia che abitava in una modesta capanna di canne e fango, davanti alla quale un giorno si presentarono due viandanti malridotti, che nessuno aveva voluto ospitare nella sua comoda dimora. Del tutto ignari della vera natura dei due venuti, che in realtà erano Zeus ed Ermes, Filemone e Bauci li fecero entrare. Al momento della loro ripartenza i due ospiti si rivelarono per quello che erano e chiesero a Filemone e Bauci di esprimere un desiderio. I due chiesero di poter diventare sacerdoti del tempio di Giove e di poter morire insieme. Il padre degli Dei accolse la loro richiesta e poco prima che essi morissero li trasformò l’uno in un tiglio e l’altra in una quercia.

Il mito ovidiano attinge a una tradizione antichissima e che rimane viva in vari luoghi, è tutt’uno col culto degli alberi.

Ancora fino a pochi secoli fa, l’Europa era coperta da un’immensa foresta primigenia, che ispirava miti e credenze, ma anche generava paure – basti citare l’inizio della Divina Commedia: “ Nel mezzo del cammin di nostra vita /
mi ritrovai per una selva oscura,
/ ché la diritta via era smarrita. // Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
/ esta selva selvaggia e aspra e forte
/ che nel pensier rinova la paura”.

Luoghi paurosi perché labirintici, ma anche perché sostanzialmente magici e, sin dalla preistoria, sacri.

Dagli albori della nostra cultura, l’albero è stato simbolo di rigenerazione e di cambiamento, associato a quella che Marja Gimbutas ha chiamato la Grande Dea.

Ancora oggi all’interno dei riti cattolici rimane viva – anche se da moltissimi incompresa – la presenza di questo antichissimo culto degli alberi. In Sicilia, come altrove del resto, vi sono varie processioni che rimandano ad esso. A Cerami, ad esempio, per festa di San Sebastiano, i fedeli, dopo aver pregato nella chiesa a lui dedicata, a piccoli gruppi si recano nei boschi vicini e raccolgono dei rami di alloro che saranno raccolti in pesanti fasci alti quasi tre metri e trasportati durante la processione. Nello stesso periodo la raccolta dell’alloro si ripete in diverse altre feste, fra cui quella di San Vito a Regalbuto, dove, per sciogliere un voto o chiedere una grazia, molti devoti si recano nei boschi: le donne spesso coi capelli sciolti, in segno di penitenza.

La sacralità dei boschi è stata anticipata soltanto dai riti che in età preistorica si celebravano nel ventre della montagna, nelle grotte, dove i nostri antichissimi padri compivano un ritorno all’origine: un’ascesa verso il Cielo e una discesa alle viscere della Terra. Riti di cui ci rimangono magnifiche tracce in tanti siti archeologici e soprattutto nella Grotta Chauvet (i cui dipinti risalgono a circa 30 mila anni fa) e in quelle di Lascaux e Altamira, le cui immagini sono di circa 15 mila anni più recenti.

Il bosco divenne un tempio diverse migliaia di anni dopo. I uno dei libri a me più cari, Il ramo d’oro – uscito nella prima versione nel 1890 e che cita nel titolo il famoso quadro di Turner, raffigurande il lago di Nemi – James Frazer scrive: “Da un esame delle parole teutoniche significanti ‘tempio’ il Grimm ha dimostrato che probabilmente tra i Germani i più antichi santuari non erano che boschi naturali. Comunque sia, il culto degli alberi è bene attestato fra tutte le grandi famiglie europee di razza ariana. Tra i Celti, il culto delle querce dei Druidi è familiare a ognuno, e la loro antica parola per santuario sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi. Sacri boschetti erano comuni tra gli antichi Germani e il culto degli alberi non è del tutto estinto tra i loro discendenti di oggi. Quanto questo culto sia stato profondo nei tempi passati si può ricavare dalla pena feroce a cui le antiche leggi germaniche condannavano chi avesse osato strappare la corteccia di un albero. Si tagliava l’ombelico del colpevole, lo si inchiodava a quella parte dell’albero che egli aveva scortecciato, e la vittima veniva trascinata intorno all’albero finché tutti i suoi intestini non si fossero avvolti intorno al tronco. Evidentemente il significato della punizione era di rimpiazzare la corteccia morta con un sostituto vivente preso dal colpevole; una vita per l’altra, la vita di un uomo per la vita di un albero”.

Da sempre, dunque, gli alberi abitano l’uomo, non meno di quanto abitano i boschi. Fanno parte del più intimo legame tra l’uomo e la natura. Legame che da diversi anni Ottavio Celestino ha posto al centro della sua ricerca, considerandolo un punto assolutamente ineludibile dell’esistenza. Un primo capitolo di questa sua ricerca ce lo ha dato nella bellissima mostra “Nature meccaniche”, le cui immagini sono raccolte in un libro che ha lo stesso titolo: 29 fotografie, che, ad eccezione di una ripresa in Giappone, sono paesaggi innevati ripresi in Islanda, Finlandia e Lapponia. Sono fotografie nate dalle suggestioni che gli sono venute dalla lettura delle Operette morali di Leopardi, e segnatamente dal Dialogo della natura e di un islandese. Lì, come nelle immagini di questa mostra, la natura ci interroga, ci chiama a sé, pur lasciandoci lo spazio per intervenire in essa, perché, così come diceva il filosofo tedesco Romano Guardini, “nella natura ancora vergine, in quell’ordine in cui vive l’animale, l’uomo non potrebbe esistere. L’esistenza umana è permeata di spirito, ma lo spirito non può operare se non dopo aver portato via alla natura un po’ della sua realtà”.

Diego Mormorio


 

ABRUZZO 1935 – AFGHANISTAN 1978 Fotografie di Pasquale e Riccardo De Antonis

A cura di Diego Mormorio

Testi di Diego Mormorio e Riccardo De Antonis

Inaugurazione 27 gennaio, ore 18:30
ACTA INTERNATIONAL ROMA

27 gennaio – 17 febbraio 2016

La mostra nasce dai ricordi di Riccardo. Quando, al suo rientro dall’Afganistan, mostra al padre le fotografie prese durante il viaggio, Pasquale, osservandole – così Riccardo rammenta – non potè fare a meno di notare come in quei volti, in quei paesaggi, in quelle atmosfere, gli sembrasse di poter ravvisare ” qualcosa ” del suo Abruzzo, come lo aveva rappresentato tanti anni addietro, nei suoi  ben noti lavori fotografici di indagine etnografica. Da qui il legame tra Abruzzo e Afganistan che dà il titolo alla mostra: paesi e tempi così lontani tra loro ma entrambi con quel “quid” universalmente poetico che li accomuna. La mostra è composta di circa 26 immagini: tutte vintage b/n quelle di Pasquale, quasi tutte inedite e a colori quelle di Riccardo. (ACTA International)
Galleria
ACTA INTERNATIONAL
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BREVI CENNI SUL LAVORO DI PASQUALE DE ANTONIS

 

De Antonis nasce a Teramo nel 1908,inizia la sua attività di fotografo nel 1928 a Pescara.

Nel 1935 realizza delle importanti fotografie etnografiche sulle feste di Rapino,Spoltore,Pretoro e S.Gabriele considerate da Annabella Rossi come i primi reportage etnografici insieme a quello di PozziBellini sul Pianto delle Zitelle.Tra il 1930 e 40 ricerca sul ritratto ed il colore producendo immagini dipinte su foto in bianco e nero con una tecnica speciale a base di viraggi,colori a matita uniti con aniline e olio (vedi Photo n.162 dic.1968

Sempre di questi anni è una documentazione storica con foto di architettura e paesaggio su Pescara dell’epoca di D’annunzio anche queste con interventi cromatici.

Interessante per le innovazioni e la ricerca nelle tecniche dell’inquadratura dell’illuminazione è il suo lavoro fino al 1938, specialmente per l’industria,lo sport ed in particolare per le corse di F1 Coppa acerbo.

Partecipa con splendidi ritratti al concorso naz.fotografico del 1933 al I salone della fotografia di Vienna 1934 e XXXI salone di Arte fotografica di Parigi del 1936.

Nel 1939 si trasferisce a Roma in P.di Spagna dove avrà il suo studio fino 1990

Tra il 1947 e 1952 esegue per i testi di Irene Brinn dei servizi di Alta Moda Italiana documentandone la nascita. In questi anni lavora con Luchino Visconti fotografando i suoi spettacoli di teatro e per tutti i maggiori artisti di teatro di quel momento. Continua la sua ricerca sul ritratto fotografando i suoi amici artisti delle arti visive, letterarie e musicale come Afro,Calder,Caporossi,Flaiano,Alvaro,Pratolini,Petrassi.

Tra il 1951 e 1957 realizza delle fotografie astratte che espone alla Gall.dell Obelisco presentano le due mostre Cagli e Sinisgalli.

Dal 1960 inizia il suo lavoro dedicato all’editoria sulle Opere d’arte con grandi servizi come LaCappella Sistina per Rizzoli o i Mosaici Paleocristiani per il Poligrafico dello Stato.

A metà degli anni 70 partecipa per la fotografia alle ricerche di lavoro intercodice del Gruppo Altro con Perilli nell’ambito del teatro sperimentale.

Si spegne a Roma nel 2001


Riccardo De Antonis nasce il 22 dicembre 1952 a Roma, dove vive e lavora. All’inizio degli anni Settanta prende ad occuparsi di fotografia professionale, collaborando con il padre Pasquale nel noto studio di Piazza di Spagna, contemporaneamente, fino al ’76, frequenta l’Istituto di Storia dell’Arte della Sapienza e in particolare le lezioni di Storia del Teatro.

Nel 1977 gli viene affidato l’incarico della documentazione fotografica dei beni demoantropologici del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, a seguito di questa collaborazione, durata sino al 1997, si specia~ lizza nella fotografia di reportage antropologico, continuando l’esperienza del padre in questo settore. Nel 1978 partecipa al Convegno che si tiene a Modena sulla Fotografia come Bene Culturale con un intervento sul tema della Lettura e utilizzo multiplo di un’immagine fotografica dei fondi storìci realizzata in grande formato.

Con il M.N.A.T.P. realizza le campagne fotografiche di molti cataloghi sulle collezioni di oreficeria (L’Ornamento Prezioso, Roma, De Luca/ Leonardo, Mondadori, 1986), ceramica, fischietti, pani e dolci devozionali. Nel 1999 per il libro sulle Feste Giocate, edito da De Luca, realizza nuovi reportage e si confronta con le fotografie di due maestri come Giueppe Primoli per la festa delle bambine di Ariccia e Pasquale De Antonis per il Lupo di Pretoro e le Verginelle di Rapino. Tra il 1987 e il 1990 produce circa 15.000 immagini sulle collezioni di Piemonte e Valle d’Aosta del M.N.A.T.P., finalizzate a una mostra, catalogo e videodisco, esperienza ripetuta con i Musei Trentini per circa 35.000 immagini di storia naturale, reperti preistorici e numismatica. In seguito la sua attività si estende alla riproduzione per volumi di storia dell’arte con importanti case editrici, collezioni private e, dal ’90 al.’92, per i cataloghi della casa d’aste romana Christies.

Tra il 1978 e il 1985 fotografa il teatro contemporaneo tra Roma e Milano e riprende circa 400 spettacoli italiani e stranieri per un totale di oltre 5.000 immagini; parte di questo lavoro viene selezionato ed esposto nel 1984 a Roma, alla Sala Barbo di Palazzo Venezia e nel 2003 diviene oggetto di una nuova mostra Ieri e l’altroieri. Immagini di teatro di Pasquale e Riccardo De Antonis, presso la Libreria Feltrinelli di Genova e il Politeama Genovese, a cura del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.Nel 2004 ancora a Genova nell’ambito delle manifestazioni per Genova04 capitale della cultura europea pubblica il libro “Luce fisicità e spazio del teatro”.

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta realizza alcuni repor­tage all’estero, in particolare in Nepal, Marocco, Turchia, Iran e Afghanistan. In qualità di curatore dell’archivio del padre, ha organizzato numerose mostre e pubblicazioni,tra le più recenti per la città di Teramo, sulle fotografie astratte (testo di Diego Mormorio),per il I Festival della fotografia di Roma e ultimamente nel 2008 organizza la grande mostra sulle fotografie di moda alla Calcografia Nazionale di Roma.Espone i suoi lavori in gallerie come La Moserrato900 di Vincenzo Mazzarella ad esempio la mostra “Portrait”sui ritratti degli artisti romani acquisita totalmente dalla collezione Jacorossi,nel 2009 realizza il catalogo per la mostra Cinquant’anni di civetteria per la ADSI del Molise e espone le sue opere nella grande monografica a Pescara nel Palazzo ell’exAurum. Dal 1996 è docente di fotografia presso l’Istituto “Quasar” di Roma per i corsi di Fotografia digitale, Multimedia ,Habitat, Hipergraphic e Architettura virtuale.


Pasquale e Riccardo De Antonis

“De Antonis ha casa e bottega al primo piano di uno dei palazzetti che fanno ala alla statua dell’Immacolata in Piazza di Spagna. È fotografo di dive, di dee, di sacri mostri. Ci sono poltrone spaiate, l’armamentario, il ciarpame, la refurtiva degli studi – ateliers, dei gabinetti – scannatoi. Ma il mite molosso che si aggira in maglione tra le stanze e corridoi, con dieci o dodici rubinetti sempre aperti – chi più chi meno; il fotografo vive come un feto dentro una placenta di acqua – non ha certo le fisime di Monsieur Verdoux. De Antonis si è creato il suo passatempo dentro la fatica, l’hobby dentro il job”. Così, nel 1957, il poeta Leonardo Sinisgalli, presentando una mostra di fotografie astratte di Pasquale De Antonis alla Galleria L’Obelisco di Irene Brin e Gasparo del Corso.

In più di un’occasione ho sottolineato la perfetta corrispondenza tra il poeta Sinisgalli e il fotografo De Antonis. Tutt’e due – De Antonis e Sinisgalli (che era anche ingegnere) – sapevano bene che una poesia o una fotografia, come una macchina, devono funzionare come un congegno dove nulla è superfluo e tutto è necessario. Per questa via, entrambi nella loro opera hanno dato vita a una bellezza ben congegnata, che rimanda a Baudelaire e a una sua indimenticabile frase: “Tutto ciò che adorna la donna, che serve a illuminare la sua bellezza, fa parte di lei. […] Quale poeta mai, nel ritrarre il piacere prodotto dall’apparizione di una bellezza, oserebbe disgiungere la donna dal suo abito?”

Anche quello che sto per dire l’ho detto e scritto tante volte: Pasquale De Antonis (1908-2001) è stato uno dei dieci grandi più grandi fotografi italiani del Novecento, forse il più grande. È stato tutt’uno con la fotografia: fotografo per inclinazione, per mestiere e per divertimento. Della fotografia conosceva ogni segreto della fotografia. Era tecnicamente un “mostro”. Poteva fare ogni genere di fotografie, così come di ogni genere ne ha fatte.

Egli giunse all’arte fotografica giovanissimo. In una delle tantissime conversazioni che abbiamo avuto mi disse: “Ho cominciato a interessarmi alla fotografia a partire dal 1926, quando cioè ci siamo trasferiti [da Teramo] a Pescara. Comperai Esperimenti di cinematografia e fotografia e un’ottima macchina, la Murer, che si fabbricava a Milano e aveva, già allora, il millesimo di secondo”.

Dopo aver trascorso tre anni a Bologna, nel 1934 De Antonis fece ritorno a Pescara e aprì uno studio al n. 51 di Corso Umberto, che divenne subito il luogo di incontro di una cerchia di amici, cui faceva parte lo scrittore Ennio Flaiano, che disegnò il bozzetto per lo studio dell’amico (vedi qui accanto).

In quegli anni pescaresi De Antonis fu molto legato all’artista Tommaso Cascella, che amava scorrazzare per l’Abruzzo con la sua Lancia scoperta. Fu seguendolo che il nostro pervenne a una vasta conoscenza della regione e tra il 1935 e 1936 poté fotografare alcune delle più belle e significative feste popolari abruzzesi, come “La festa delle Verginelle” di Rapino e quella de “Il lupo di Pretoro”. Immagini che ora hanno un grande valore per chi studia i fenomeni della cultura popolare italiana, e che mostrano come De Antonis avrebbe benissimo potuto seguire la via del reportage.

Grazie a queste fotografie, nel 1936 De Antonis venne ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Fu così che per tre anni fece il pendolare tra Roma e Pescara, vivendo quattro giorni nella capitale e tre in quella che era diventata la sua città. Nel 1939, finalmente, un colpo di fortuna lo portò ad avere uno studio in piazza di Spagna. Arturo Bragaglia che lo aveva occupato fino ad allora l’aveva lasciato pieno di molti materiali che poco avevano a che fare con la migliore produzione che questo fotografo aveva realizzato nel decennio precedente.

Anche questa nuova sede, come la precedente, diventò luogo di incontro di amici artisti e intellettuali. Una cerchia che si estese molto a partire dal 1946, anno in cui De Antonis conobbe la figlia di un generale di corpo d’armata, Maria Vittoria Rossi (1914-1969), alla quale Leo Longanesi aveva trovato lo pseudonimo di Irene Brin, la quale insieme al marito Gasparo Del Corso dirigeva l’appena nata Galleria dell’Obelisco. Donna intelligentissima, colta e di grandissimo fascino, Irene Brin capì subito che Pasquale De Antonis poteva essere il fotografo ideale per fotografare gli abiti di cui lei scriveva su “Bellezza”. Ne nacque una serie di bellissime fotografie e, naturalmente, una grande amicizia, che portò De Antonis all’assidua frequentazione di molti artisti che gravitavano attorno alla Galleria dell’Obelisco, cui il nostro autore dedicò magnifici ritratti. Fra questi Corrado Cagli, che nel 1951 scrisse la presentazione della prima mostra di fotografie astratte di De Antonis, esposizione che si tenne proprio nella galleria di Irene Brin e Gasparo Del Corso.

Cagli chiude la sua nota con un grandissimo elogio: “De Antonis è entrato in questo nostro cantiere dove lentamente si va edificando l’unità della nostra coscienza e c’è entrato umilmente, lavorando alla cofana ‘portando scimmietta’ e chi l’ha visto sul lavoro non si potrà sorprendere di ritrovarsi all’Obelisco di fronte alla poetica di un nuovo, profondo poeta”.

Profondo poeta. È proprio questo l’obiettivo che De Antonis si dà, senza esplicitalo neanche a se stesso, in ogni fotografia. Anche nei diversi spettacoli teatrali che ha magnificamente fotografato per Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Luciano Lucignani, Sergio Tofano, Vittorio Gassman, Luigi Squarzina, Giorgio De Lullo, Franco Zeffirelli.

De Antonis è fotograficamente poeta come pochi anche nelle non molte immagini di paesaggio che ha realizzato. Indimenticabili sono, ad esempio, la veduta della Campagna Romana ripresa intorno al 1950 e quella del Gran Sasso visto dal versante teramano, scattata verso il 1935.

Come tutti i grandi artisti, Pasquale De Antonis non disdegnò nulla di quanto avesse a che fare col suo mestiere. Fu così anche impareggiabile riproduttore di opere d’arte, collaborando con le più prestigiose case editrici. Quasi mitica fu, nel 1965, la sua “campagna” per riprendere, durante molte notti, la Cappella Sistina.

Insomma, tirate le somme: nella fotografia del Novecento italiano, De Antonis è stato il più eclettico degli autori, il più versatile. L’impareggiabile maestro.

Fu, dunque, un privilegio unico per Riccardo De Antonis crescere fotograficamente accanto a Pasquale. Fornito anch’egli di un raro talento naturale per la fotografia Riccardo De Antonis ha potuto, giorno dopo giorno, percorrere molte strade insieme al padre, per poi affinare le proprie intuizioni e seguire i suoi propri richiami, come lascia ben vedere nelle fotografie di questa mostra, in cui con segue con delicatezza e precisione tre direzioni che gli sono sempre state care – i segni dell’arte, il paesaggio e l’aspetto antropologico – mostrandoci un Afghanistan per alcuni versi definitivamente perduto.


                                                                         Un Paese incantato

Avevo saputo che Chatwin nel 1969 intraprese un viaggio in Afganistan ed incuriosito da quelle culture mi decisi di seguirne ad anni di distanza gli itinerari.

Era il 1978 ed ancora e forse per l’ultima volta si potevano visitare quelle terre respirando un’aria di pace.

Partii con gli autobus di linea da Istanbul, allora città medio orientale ancora piena di fascini misteriosi, come il Gran Bazar con i suoi mille mercanti che vivevano anche di soli scambi o i pescatori sotto il Galata bridge che vendevano piccoli pesci fritti e pane dal sapore straordinario ed ancora un’imprevedibile giovane davanti al Topkapi ti aspettava con il suo orso ammaestrato.

Lasciata Erzurum entrai in Iran e raggiunsi Teheran dove si avvisava la voglia di un’imminente occidentalizzazione, che si coniugava con le botticelle di acqua potabile e freschissima, ne gustai il piacere sotto il caldo di un pieno Luglio, questi contenitori disseminati per la città ricordavano, mi dissero, la sete sofferta nel deserto dal Profeta. Ma il grande Iran mi si manifestò con lo splendore della Moschea di Mashad dove un gentilissimo uomo mi avvisò con garbo che l’abbigliamento della mia giovane compagna di viaggio non era adatto a quel luogo così sacro all’Islam.

Intanto erano passati diversi giorni di viaggio ed arrivai al confine Afgano lì dove cominciava la strada in asfalto costruita dagli Americani che mi avrebbe portato ad Herat. Un ciabattino riparò la borsa in pelle della mia Rolleiflex , chiedendomi per il suo lavoro degli spiccioli in moneta locale ed alla mia offerta di pagare con un dollaro, non avendo il resto e forse pensando di fare cosa gradita ad un occidentale, mi offrì in alternativa un pezzo di hashish, declinai gentilmente e ci lasciammo con un sorriso. Questo era l’Afganistan che stavo per visitare, questo fu il primo incontro con gente tranquilla e meravigliosa che mi avrebbero fatto vivere uno dei viaggi più affascinanti. Giunsi ad Herat in cerca dei primi monumenti Moghul e già avvertii qualche tensione della guerra imminente, quando mi fu detto che pochi giorni prima in una di quelle piazze avevano ucciso delle spie sovietiche. Ma la giovane età e l’assoluta imprevedibilità degli eventi, ci spinsero a continuare il nostro viaggio verso Kabul, qui la strada cambiò dall’asfalto americano passammo alle grandi lastre di cemento fabbricate dai Russi, dove in quel momento passeggiavano i cammelli, ma era già pronta per i carri armati. Su questa strada in una pausa accordateci dai nostri autisti, entrai in una delle loro costruzioni di paglia e fango dalle caratteristiche cupolette, qui incontrai un gruppetto di fieri uomini afgani, che ci offersero il loro thè e volentieri posarono per una fotografia, la quale più di altre, mi sembrò. poteva raccontare l’ospitalità di quelle terre. Seguirono centinaia di chilometri tra tempeste di sabbia ed inconvenienti di ogni tipo, compreso la mancanza di acqua potabile, bevevamo in certe zone il succo di meloni gialli per dissetarci, finchè alle porte di Kabul, in un’altra pausa sostammo in una piccolissima bottega, dove un ’uomo seduto nella posizione del loto, vendeva vicino ad un’enorme frigorifero ogni sorta di bibite ghiacciate. I nomi delle strade di Kabul ci facevano sorridere come la mitica Chicken street lì dove la vita sembrava ferma nel tempo e la sera l’unica luce accesa in mezzo alla strada era la bottega di Omar con le sue uova fritte e la birra gelata.

Ripartimmo su un track alla volta di Bamiyan per vedere i Buddha, il viaggio fu interrotto da un guasto del mezzo, si avvicinarono tre donne sul ciglio del fiume vicino e mi chiesero una delle scatolette di tonno che stavamo consumando in’ attesa di un’altro passaggio, per ringraziare si fecero fotografare scoprendo il volto nascosto dal chador. La visita ai Buddha fu piena di fantastiche emozioni, come il poter uscire dalle loro teste passando per meravigliose cappelle affrescate. La tappa successiva fu Mazar-i Shariff su quella strada incontrammo l’antichissimo sito di Balkh, che ci accolse con il fascino delle sue decorazioni in pieno deserto. Girando tra le cupole tutte azzurre come il cielo ed oro della moschea di Mazar-i-Shariff, entrai casualmente in una bottega di libri vecchi per lo più scolastici, ma in mezzo a quelli trovai e comprai un meraviglioso corano antico scritto a mano con lettere nere e rosse, la sorpresa avvenne all’uscita quando nelle zone vicino, venivo fermato da tanti, che mi chiedevano di toccarlo, poi lo baciavano e me lo restituivano, ma improvvisamente qualsiasi cosa ci servisse era praticamente gratuita.

L’ultima destinazione diventò Band i Amir ed i suoi laghi blu sull’altopiano, li raggiunsi su un track di un altro Omar autista afgano a cui piaceva il canto della mia compagna, che per scherzare cantava un vecchio motivo napoletano “Torna a Surriento”e li’ dove dice “vir’u mare quant’è bello” la sola assonanza con il suo nome, senza capire nulla del testo che si cantava, ci fece viaggiare tra risate di gioia sincera.

In quell’atmosfera di festa incontrammo, venire dal nulla e diretti verso un altrettanto nulla, un gruppo di nomadi con cammelli e vestiti dai toni ambra e rossi con fantastici e piccoli gioielli popolari che brillavano in mezzo a tutti quei colori pastello. Una febbre malarica ci convinse a non proseguire per Peshawar in Pakistan che ci avrebbe aperto le porte dell’India, cominciammo invece il viaggio di ritorno per un altro mese di cammino in quelle terre antiche e meravigliose.

Riccardo De Antonis

Roma 09 12 2015